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domenica 17 giugno 2012

Robert Capa e Gerda Taro, due giocatori d’azzardo nati per la puntata massima




Ecco un mio vecchio articolo sul fotoreporter Robert Capa


Due occhioni beffardi di quelli che ti penetrano l’anima, il capello
spettinato e lo sguardo intenso di chi con la morte ci gioca a dadi.
Essenziale e profonda, come i suoi scatti, era la fisionomia di Robert Capa, probabilmente il più famoso fotoreporter del ventesimo secolo. In mostra fino al 21 giugno al milanese Spazio Forma, l’esposizione, intitolata “This is War”, raccoglie le migliori istantanee del fotografo nel decennio tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Strutturata come un ideale dialogo per immagini con Gerda Taro, di cui si presentano i reportage della guerra di
Spagna, la rassegna è un omaggio all’opera dei due fotogiornalisti, ma anche alla travolgente passione amorosa che li unì. Entrambi di origine ebrea, costretti dalle leggi razziali al ruolo di “gitani con la macchina fotografica”, si incontrarono a Parigi nei primi anni trenta, probabilmente in uno dei tanti caffè che animavano la bohème di Montparnasse. Dopo forse uno scambio di sguardi, di quelli che ti fotografavano l’anima, come li avrebbe definiti John Steinbeck, i due decisero di intrecciare i propri destini e la propria passione: rivelare la verità del mondo attraverso le loro
macchine fotografiche. Nel 1936 la giovane coppia, scossa dalle notizie che arrivavano dalla Spagna, si precipita in Catalogna documentando, per la rivista francese "Vu", gli orrori della guerra civile. Tra gli scatti presenti nelle sale, che ritraggono militari all’assalto o soldatesse in un raro momento di riposo, il posto d’onore è riservato alla celeberrima foto di Capa “The falling
soldier”, il miliziano colto nell’impercettibile attimo in cui viene colpito a morte dai franchisti. La foto, che pare innestarsi sul filone del ciclo dei “Disastri della guerra” di Goya, diverrà immediatamente “l’immagine” del conflitto spagnolo ricordando come, molto spesso, la Libertà esiga la vita da coloro che la difendono. Tuttavia, a cadere in quegli anni, non furono
soltanto soldati, ma anche intellettuali e giornalisti come Gerda Taro, uccisa da un cingolato nel 1937. Morta appena ventisettenne, la compagna di Capa, grazie all’obiettivo della sua Rollei, aveva immortalato le prime donne-soldato che, ora, reclamavano il proprio posto nella Storia al pari degli uomini. Ricca di manoscritti e documenti, l’esposizione meneghina sfoggia, inoltre, le stampe delle foto più celebri di Robert Capa come gli scatti effettuati durante gli ultimi giorni della seconda guerra mondiale o quelli del conflitto cino-giapponese. Su tutti spicca l’istantanea, “leggermente fuori fuoco”, del soldato alleato accucciato nelle acque di Moha Beach, la spiaggia del D-Day. Proprio per il suo essere sfocata, l’immagine trasmette, quasi per osmosi, la trepidazione e il furore dei soldati,
giovani protagonisti di quell’inferno fatto di uomini che cadevano, ormai cadaveri, tra strazianti urla d’aiuto. Le tragedie di cui Capa fu testimone non scalfirono, tuttavia, la sua radicale fiducia nell’uomo e il particolarissimo senso dell’umorismo che lo distingueva. Ironia, la sua, a volte tragicomica come quando scrisse alla madre, in apprensione durante i giorni dello sbarco in Normandia, una lettera con un incipit memorabile: "Durante il DDay qualcuno ha visto galleggiare il mio corpo nell'acqua. Spero che se mi debba mai capitare una cosa simile, preferirei piuttosto galleggiare nel
whisky". Robert “Bob” Capa di certo non riuscì a galleggiare nel whisky, ma fu in grado di tenersi a galla nelle situazioni più rischiose ripetendo a se stesso la regola deontologica che s’era dato: "Il corrispondente di guerra ha in mano la posta in gioco, cioè la sua vita, e la può puntare su questo o quel cavallo, oppure rimettersela in tasca all'ultimo minuto. Io sono un giocatore d'azzardo”.
Spirito non adatto ad una vita in poltrona e pantofole, giocatore lo fu fino all’ultimo, quando, nel 1954, durante un reportage in Indocina, si inoltrò in un campo minato dal quale non tornò mai più vivo. Un’ultima incoscienza o forse solo il desiderio di andare a fotografare gli dei.

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